CNR Politica Ricerca

Sul precariato in ricerca: rompiamo un tabù

Desidero affrontare il toro per le corna perché laddove c’è incomprensione si annida ostilità, e il tema del precariato si presta in modo particolare a generare l’una e l’altra. Lo faccio con un approccio scevro da alcun interesse personale, alla ricerca della definizione di un piano di analisi del fenomeno che ne consenta una gestione provvida, senza che nessuno si possa sottrare alle sue responsabilità. Ovvio che nonostante i buoni propositi mi aspetto di essere criticato a destra e a manca, come una certa conoscenza della Storia mi insegna, ma non mi va che questo argomento debba essere escluso a priori dal confronto. La scienza, la dialettica, l’analisi contestuale non ammettono tabù.

Comincerò con l’affermare che non dovrebbe esserci dubbio alcuno riguardo alla necessità del mantenimento di un bacino fisiologico di precari, giovani aspiranti al ruolo di ricercatori, al quale attingere con criteri meritocratici, per le nuove assunzioni. Non è infatti detto che tutti coloro che vogliono cimentarsi nel ruolo di ricercatore scientifico siano idonei a farlo, e questo vale pure per qualunque altro mestiere della vita. Nella mia personale esperienza, ad esempio, solo un quarto circa dei pretendenti avevano attitudine al mestiere di ricercatore scientifico (curiosità, interesse, entusiasmo, spirito di sacrificio, iniziativa, inventiva) e ho comunque sempre badato bene di non precarizzare nessuno, con esiti non disprezzabili. Come è stato possibile? Bè, in modo molto semplice. Tutti, nessuno escluso, sono stati avvisati da subito (già alla richiesta di un lavoro di tesi) della mia totale estraneità ad un sistema di gestione della ricerca che ho sempre aborrito. Questo giudizio, questa condizione, che mi escludeva e mi esclude da qualunque consorteria, non avrebbe dato a loro nessuna altra possibilità se non quella di verificare, nell’arco di 2 o 3 anni, e a suon di risultati e sfide personali, la loro effettiva predisposizione ad un ruolo che, se accertata, ho incoraggiato ad esercitare altrove. Gli altri, diversamente idonei, li ho invece indirizzati in svariate realtà lavorative Nazionali e Internazionali (Citterio, Philip Morris, Ospedale San Raffaele , MED-EL GmbH Innsbruck, Eppendorf, Thomas scientific , Laboratorio analisi Locarno, Primm srl, Sartorius, Fraunhofer Institute, etc…) dove han fatto carriera , godendo di retribuzioni spesso ragguardevoli e decisamente superiori a quello che avrebbero ottenuto al CNR. Alcuni mi hanno pure ringraziato per averli a suo tempo dissuasi dal procedere per vie interne, a dispetto della loro iniziale volontà. Quando mi laureai nel lontano 1980, i colleghi dell’Istituto dove svolsi la tesi mi regalarono un bel libro intitolato “Consigli ad un giovane scienziato” scritto da Peter Medawar, premio Nobel per la Medicina. Il principale era quello di allontanarsi dal luogo di formazione e percorrere nuove strade per connotare se stessi, per affermarsi.

Perché una persona par mio si è sempre posta il problema di non generare precari? Perché lo è stato a sua volta , e non gli è mai garbato. Perché, al contrario di quanto sento affermare non è quello recente il periodo più inclemente nei confronti dei precari o almeno è molto difficile stabilirlo, per il rispetto dovuto a tutti. La media di precariato di molti senior attuali è di almeno 10 anni, spesso parzialmente o addirittura non riconosciuti. Molti, dopo esserlo stato per anni, han dovuto abbandonare, altri starsene a casa non pagati per anni, a causa del blocco delle assunzioni, altri vedersi non riconosciuta l’anzianità, altri perdere denaro in inefficaci ma lucrose, per altri, azioni legali. Tutto questo senza nessun solido appiglio legislativo su cui poter contare, né solidarietà di massa. E’ quindi sbagliato voler sollevare steccati per stabilire chi ha il primato del precariato, chi è stato maggiormente martirizzato. E’ invece molto più giusto, più corretto, fare tutti il possibile perché, al di là del bacino fisiologico cui accennavo all’inizio, si eviti nel futuro immediato di creare nuovamente illusione, sfruttamento e sofferenza. A questo proposito ,e a parte la evidente e grave responsabilità di un Ente che non sa gestire, non sa programmare un serio e costante piano di reclutamento, dobbiamo pure chiederci se quando parliamo di un eccesso di precariato, i ricercatori-tutors non ne abbiano una parte di responsabilità. Quando, ad esempio, insistono in rinnovi senza speranza così da produrre uno stato di cronica sofferenza, destinato a scoppiare prima o poi, con le note ciclicità. Quanti precari hanno generato con le abbondanti, quanto ineguali, innaffiature ottenute con progetti non competitivi, assegnati per appartenenza e non per valore? Erano quelli, i loro, i migliori sulla piazza? Difficile pensarlo e nel frattempo tanti altri, meno fortunati ma almeno egualmente bravi, sono stati allontanati.
Non è che forse pensiamo troppo a noi stessi, prima o poi il nostro assistito entrerà (della serie : resisti che alla fine il sistema ti assorbirà), e meno alla nostra funzione più nobile che è quella di formare in modo continuativo personale tecnico-scientifico così da immetterlo in un libero mercato, dove diverse sono le figure professionali e le opportunità cui potrà far fronte?

2 thoughts on “Sul precariato in ricerca: rompiamo un tabù

  1. Caro Dott. Breviario,
    ho letto con interesse il suo intervento ed essendo un ricercatore stabilizzato da poco, mi sento
    quasi in dovere di esprimere un mio commento.
    Ci sono alcuni punti sui quali mi sento di darle assolutamente ragione: un precariato all’interno di un
    Ente di ricerca, sia esso universitario o meno, è una condizione fisiologica perché la formazione di un
    ricercatore è lunga e complessa e non porta sempre e comunque ad un professionista adatto al ruolo.
    Un precariato lungo 10 anni o più (come lo è stato il mio) è una manifestazione patologica di un sistema
    che non ha mai preso in carico il problema di come strutturare tale precariato e lo ha reso una lunga
    e lenta agonia.
    Forse un ricercatore è addirittura la figura meglio “garantita” in questo sistema balordo.
    Quella di un tecnico o di un amministrativo è persino peggio, ma non posso dilungarmi troppo e quindi non
    ne parlerò.
    La chiarezza della problematica è lampante, ma le conclusioni e le proposte per mitigarla sono al momento
    estremamente personali. Sia che si tratti di un comune strutturato come il sottoscritto, che di un direttore
    di un Istituto, la “contromisura” appare frutto di valutazioni estremamente indipendenti e ciò è già di per sé
    un problema, perché crea enormi disparità.
    In moltissimi si ricorderanno le profonde spaccature tra “comma 1” (TD) e “comma 2” (AdR), spaccature che
    non provenivano di certo dalla volontà di premiare (diciamo così) alcuni, ma da semplici esigenze di bilancio
    che ogni Istituto ha valutato a modo proprio.

    Il lavoro di un ricercatore precario, poi, non è sempre omogeneo. Da un lato c’è chi lavora in ambiti “mainstream”
    in gruppi di lavoro già molto forti, che ne permettono una crescita veloce sia dal punto di vista culturale che
    dal punto di vista bibliometrico (basti pensare agli Istituti che sono compresi nel DIITET).
    Ad un concorso per una posizione stabile, costoro avranno certamente carte migliori da giocare rispetto a quelli
    che, loro malgrado, lavorano in un settore più “elitario” pubblicando su riviste dalla rilevanza certamente
    più bassa.

    Ecco, questo è il punto che secondo me sia lei che molti altri tendono a non vedere o a non voler vedere: prima di
    parlare di chi ha “attitudine al mestiere di ricercatore scientifico” bisognerebbe domandarsi su quale base vengono
    giudicate le persone. Quando lei ha iniziato a fare ricerca esisteva un numero estremamente limitato di riviste
    scientifiche e nessuna mente perversa aveva ancora trasformato indicatori bibliometrici come IF, H-index ecc..
    in strumenti di valutazione (l’IF, ad esempio, era nato per pure necessità di classificazione bibliotecaria).
    Le commissioni erano costrette a LEGGERE i lavori del candidato per farsene un’idea, non andavano su Google Scholar a contare il numero di citazioni (oggi essere più bravi equivale ad essere più “famosi” in una specie di enorme talent internazionale dove al televoto o ai like abbiamo sostituito le citazioni), limitando la valutazione di un ricercatore ad un mero numerello.
    Il sistema si sta facendo a poco a poco fagocitare da esigenze economiche dell’editoria online e non cerca di uscirne, anzi, suggerisce l’utilizzo degli indicatori quali migliori strumenti di valutazione nei concorsi di vario livello.

    L’altro punto del suo discorso che mi turba molto è quando dice:
    “…la loro effettiva predisposizione ad un ruolo che, se accertata, ho incoraggiato ad esercitare altrove.”
    Non le pare paradossale?
    Lei che è un ricercatore del CNR, che non crede in questa istituzione tanto da spingere le persone ad andar via.
    Per fortuna non tutti la pensano come lei, altrimenti ci ritroveremmo un Ente pieno di ricercatori mediocri
    perché quelli bravi sono andati tutti ad ingrassare le file delle Università straniere.
    Ognuno ha la propria idea in merito, ma personalmente non penso che, ravvisati i problemi e le criticità dell’Ente,
    la migliore soluzione sia praticargli un’eutanasia aiutandolo a sparire.
    Bisognerebbe credere nella causa, cercando, al contrario, di selezionare il meglio per far crescere la qualità
    dell’Ente in modo da avere maggiori speranze che la politica decida di sovvenzionare meglio ciò che rende il
    Paese competitivo.
    Mi creda, non è un discorso da “giovane pieno di entusiasmo” anche perché tanto giovane non sono più, ma è
    un discorso di responsabilità.
    I ricercatori fanno un lavoro in piena indipendenza ed è nostra la responsabilità di quello che questo Ente
    diventerà tra 10 o 20 anni.

  2. Caro Danilo, innanzitutto grazie di avermi risposto, di dar vita, secondo la premessa dell’intervento cui ti riferisci, ad un confronto generazionale che è importante che ci sia, che si sviluppi, evitando di venir ostacolato da incomprensioni e incomunicabilità. Un confronto generazionale che si esalta nella tua conclusione, nel rimprovero finale che mi muovi perché è giusto e sacrosanto che tu, alla tua età ancorché non più giovanissimo, voglia e pretenda di pensare positivo, di voler cambiare un sistema che non va. Un sentimento, il tuo, che conosco fin troppo bene e che mi guidò nella mia scelta di rientrare in questo Paese tanti anni fa (1986) proprio per dare il mio piccolissimo contributo a portare aria e mentalità nuova. Rientravo come un cervello, bontà loro, che appena mostrò di voler pensare da solo han cercato bene ed in più modi di asfissiare, non riuscendoci. I meccanismi che misero in atto, boicottaggio di carriera-concorsi ammaestrati-finanziamenti-informazioni-spazi-strumentazione, sono gli stessi che operano ancora oggi, come sperimentiamo quotidianamente, come riportano periodicamente le cronache nostrane e come testimoniano i tanti nostri esiliati. E’per questo che non ce la faccio a non dare il consiglio di andarsene a coloro che vogliono misurarsi solo con se stessi nel nobile esercizio della scienza, senza doversi assoggettare a meccanismi e ruoli poco dignitosi. Ma tu pensi davvero che all’estero ci sia qualcosa di simile ai progetti FISR? Giusto per rimanere attuale. Certo chi rimane deve avere la tua bella attitudine e mi
    auguro che il vostro numero cresca così da liberare il sistema della ricerca dalla cappa che lo opprime, e che lo rende insopportabile, anacronistico e ingiusto. In fin dei conti, se me lo concedi, io stesso, costretto da questo stesso sistema a cambiarmi i connotati scientifici per sopravvivere in purezza, sto ancora cercando di dare una mano esponendomi come faccio, quando per età e per condizione, potrei farne a meno, seguendo l’esempio dei tanti collaborazionisti (dal mio intervento Scienza e Democrazia) . Sui concorsi, da abolire, e sulla responsabilità, da sostenere, ho scritto in altri miei interventi (https://comancio.blog)
    Un caro saluto. Diego

Rispondi a Diego Breviario Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.