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8 Dicembre 2020 alle 23:18 #8899BBNPartecipante
Vorrei segnalarvi questa iniziativa in cui, insieme ai colleghi di diversi istituti/enti, denunciamo con forza lo scandaloso tentativo di accorpamento degli istituti marini e dell’istituto polare del CNR con la Stazione Zoologica di Napoli, senza che fosse mai stata avviata alcuna discussione e confronto con i ricercatori di nessuno degli enti, attraverso un emendamento da inserire di soppiatto nella legge di bilancio. E’ una doverosa richiesta di trasparenza, di rispetto verso i ricercatori, attraverso la condivisione e partecipazione nei processi decisionali, come da raccomandazioni della Carta Europea…
Buona lettura, e chi ritiene firmi presto!
https://www.change.org/p/gaetano-manfredi-i-ricercatori-italiani-chiedono-rispetto
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9 Dicembre 2020 alle 10:49 #8900sergio.ragonese@cnr.itPartecipante
Cari colleghi, non entro nel merito del metodo con cui è stata condotta l’operazione Istituto Nazionale Italiano per le Scienze del Mare (possibile acrostico INISM), ma sull’interrogativo che tutti noi ricercatori del mare dovremmo porci ricordando anche i primi tentativi di creare in Italia un unico Istituto per le scienze del mare attivati (vanamente) da Giovanni Bombace dell’allora IRPEM CNR di Ancona: è meglio piccolo e bello (ovvero quanto è verde il mio orticello) o è meglio puntare a creare un unica realtà tematica nazionale, ben organizzata e coordinata, su tutto il territorio, ricca di personale che agisce in sincronia e (cosa importantissima) dotata delle necessarie infrastrutture e strumentazioni non ultime le navi (almeno 3 unità gemelle) per svolgere autonomamente la ricerca nei nostri 3 bacini principali (Tirreno, Ionio e Adriatico)?
Per quanto personalmente sia convinto che in un mondo globalizzato e competitivo, dove conta molto l’effetto scala, l’INISM sia la risposta più valida (associandomi alla recente lettera di Silvio Greco), non ci sarebbe nulla di male a pensare più congruo per l’Itala lo scenario “piccolo e bello”.
Ciò che appare tragico è la classica scelta del popolo italico riassumibile nel celeberrimo motto “con la Spagna o con la Francia, basta chè se magna!”.
Molti colleghi del CNR sembrano non condividere l’INISM, ma dimenticano di evidenziare la recente conseguente illogica scelta del CNR di individuare 3 Istituti del mare (IRBIM, IAS e ISMAR) che di fatto sono come le 3 grazie, sono cioè indistinguibili nella sostanza facendo tutti la stessa cosa: si occupano del mare.
Non a caso, le 3 entità stanno costruendo uno stesso sito web, hanno adottato dei logo impercettibilmente diversi l’uno dall’altro e (per farla breve) fanno parte di uno stesso network scientifico di ricerca sul mare (forse propedeutico per i piani nazionali di raccolta dati alieutici) che, guarda caso, il lettore potrà trovare descritto nel sito della Stazione Zoologica di Napoli.
Volendo difendere il “piccolo è bello”, infatti, ci si sarebbe aspettato dall’ultima riforma la riparazione dei guasti precedenti creati con ISMAR e IAMC, quando si cercò di mitigare la sovrapposizione fra i due istituti prima separando l’Italia in due settori geografici poi togliendo una “e” al secondo, cioè trasformando l’originale Istituto per lo studio dell’Ambiente Marino e Costiero in Istituto per lo studio dell’Ambiente Marino Costiero (con ricadute comiche, per esempio, noi di Mazara avremmo dovuto fermare le nostre esplorazioni al Rubicone costituito dall’isobate dei 50m (o, volendo essere larghi nella definizione di costiero, i 200m). Insomma, come mi ero permesso di suggerire a Trincardi e ai miei colleghi il nuovo “piccolo è bello” poteva essere più scientificamente attuato separando la scienza del mare in 2 compartimenti, quello abiotico (oceanografia e geologia marina) e quello biologico (ecosistemi e sfruttamento delle risorse), mantenendo un coordinamento in ambito di Dipartimento perché i due compartimenti non si possono separare nettamente volendo adottare il tanto sbandierato quanto pochissimo attuato in pratica approccio cd “ecosistemico” alle scienze del mare (quindi di nuovo, meglio un solo Istituto del mare).
E il Polare? Quando feci notare ai colleghi l’incomprensibile esclusione del Polare dagli Istituti CNR del mare, dato che la sua area di interesse era fatta per metà di mare (seppure ghiacciato) e per metà si affacciava su aree di grande interesse sia per lo studio di un ambiente marino estremo che per la pesca (infatti, ci sono diverse agenzie internazionali per questo tema), mi fu fatto cortesemente notare che le finalità del nuovo Istituto non erano primariamente indirizzate agli Oceani.
Un ultimo commento lo voglio fare sul tema dei finanziamenti alla ricerca (tema intrinsecamente connesso all’organizzazione della stessa ricerca) sempre limitandomi agli Istituti del mare CNR. Chi mi conosce sa bene quanto mi piaccia ripescare (qui ci vuole dato il mio campo di ricerca) delle immagini suggestive per sintetizzare la problematica.
Si dice che negli inferi (o Ade) ci sia un cordaio di nome Ocno che si affatica incessantemente a fabbricare una corda che però, dietro di sè, a sua insaputa, viene mangiata da un somaro. Ecco, io credo che prima di affannarsi a difendere il “piccolo è bello” o a chiedere ulteriori pubblici denari, noi ricercatori dovremmo guardarci alle spalle e chiedere conto di come i soldi che già abbiamo siano poi utilizzati (a parte gli stipendi). Ovviamente, non è possibile elencare in questa sede le voci di spesa che meriterebbero un approfondimento (anche perché molte volte i riscontri sono difficili da vedere per un comune mortale), ma basterà ricordare solo due recenti casi dal macroscopico al particolare: le decine di milioni di euro assegnati dal CNR alla televisione scientifica (vedi Report) e il caso della Rosanna F., una nave da ricerca per anni lasciata ormeggiata, per ragioni a me ignote, su un molo di Mazara
(pagando penso costosi oneri di ormeggio) ed adesso alienata probabilmente perché evidentemente considerata non gestibile (ma dove sono i documenti relativi a questa decisone?).
Il sottoscritto spera d andare in pensione tra un anno, ma ai colleghi “marini” che rimangono sul campo di battaglia suggerirei non solo di chiedere a gran voce la creazione di un Istituto Nazionale del mare, ma che lo stesso sia gestito con la massima trasparenza (tutti i documenti debbono essere accessibili facilmente a tutto il personale) e massima partecipazione dei ricercatori negli organi direttivi e decisionali al fine di evitare altre televisioni scientifiche ed altre navi fantasma.Un salutissimo a tutti ed un augurio di buone festività natalizie e di fine anno compatibili con il delirio pandemico che speriamo termini presto
Sergio Ragonese
Non c’è nulla di male
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9 Dicembre 2020 alle 13:32 #8901BBNPartecipante
Io credo che il metodo non possa essere liquidato con poche parole. La credibilità di chi agisce in questo modo è nulla, direi che “il re è nudo”, perchè le motivazioni dichiarate sono ampiamente smentite dalle modalità dell’azione, e che tentativi del genere non possono e non devono ripetersi.
Del merito si discute apertamente, con iniziative pubbliche, tipo gli “stati generali della ricerca sul Sistema Terra” (chè peraltro sempre meno si dovrebbe guardare al singolo dominio e sempre più alle interazioni e accoppiamenti tra terra-oceano-atmosfera-criosfera-biosfera).
In un mondo in cui le risorse sono assegnate su base competitiva (certamente non in Italia), contano le capacità e le competenze, non conta tanto se un ricercatore lavora in una scatola grande o in una scatola piccola. Prima di parlare di accorpamenti esigiamo che le risorse siano gestite in modo trasparente ed assegnate prevalentemente (e regolarmente) attraverso valutazioni comparative. Chiediamo che le strategie e le priorità vengano definite e discusse con i ricercatori, nel pieno rispetto delle raccomandazioni della Carta Europea e dei principi della Open Science, di cui tanti si riempiono la bocca ma su cui vediamo poche azioni concrete. Dopodichè, sono disposto a discutere e valutare tutte le opzioni (accorpamenti, consorzi, etc etc.), e personalmente posso essere contento di lavorare in un istituto di 50 persone o di 2000 persone, perchè la qualità del mio lavoro non cambierà. Perchè se il fine è la scienza non contano gli enti, ma le persone che credono che si possa progredire solo attraverso collaborazioni aperte. Devo però essere certo anche che non peggiori, e per questo credo anche che vadano affrontati prima ben altri problemi. Sarebbe ad esempio necessaria una profonda revisione della burocrazia nei nostri enti, che non tiene conto della specificità del nostro settore, ma prima di tutto è imprescindibile il rispetto delle regole comuni, la trasparenza e una vera partecipazione dei ricercatori negli organi e nei processi decisionali. -
14 Dicembre 2020 alle 16:42 #8922lucio@lambrate.inaf.itPartecipante
Scusate se mi intrometto da “non piu’ CNR” (frequento il forum e ricevo la newsletter in quanto “coabitante” in un Area CNR). Inoltre ignoro il contesto (questo “Istituto Nazionale” di cui parlate sarebbe un ente autonomo o una superstruttura CNR ?).
Voglio solo ricordarvi che nel 2003 e nel 2005 sono state fatte due operazioni (di scorporo dal CNR e di creazione di nuovi enti “monodisciplinari”): una ha preso taluni istituti geofisici ex CNR e l’Osservatorio Vesuviano e ha creato INGV, l’altra ha preso tutti gli istituti astrofisici ex CNR e gli osservatori astronomici e ha creato INAF. Io conosco bene questo ultimo caso, in quanto noi (dapprima IFCTR CNR e poi sezione di Milano dello IASF CNR – con Bologna, Frascati e Palermo) siamo diventati una “struttura” dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) col nome IASF Milano.
C’e’ stato poi negli stessi tempi un altro caso simile (INRIM da un istituto CNR e lo IEN Galileo Ferraris) ma diverso in quanto credo limitato all’area torinese.
Ora secondo me quello di avere enti (autonomi) nazionale e unidisciplinari (come INFN, INGV, INAF) e’ una buona soluzione (sopratutto nel caso la “massa” dei ricercatori e’ simile o maggiore di quella del corrispondente settore disciplinare universitario, come avviene per l’astrofisica).
Noi abbiamo avuto presidenti tutti “del giro” (e alcuni anche “dell’ente”), eleggiamo diversi membri del CdA e del CS o simili, e sostanzialmente ci autogestiamo.
Da quello che ho capito da lontano di cosa e’ diventato il CNR, credo che la cosa ci sia convenuta.-
14 Dicembre 2020 alle 22:28 #8923BBNPartecipante
Non so più come scriverlo. Purtroppo il contesto non si può ignorare. Il punto non è la riorganizzazione in sè, di cui si può certamente discutere, ma il fatto che ci sia stato il tentativo di imporla senza consultare nessuno.
Delle modalità più efficaci per eventuali razionalizzazioni si deve discutere apertamente, per valutare i vantaggi e gli svantaggi delle varie opzioni. Chi ha argomentazioni solide non ha paura del confronto.
Il confronto è stato invece volutamente evitato, lasciando facilmente intravedere la vera finalità dell’operazione: non si tratta di razionalizzare nulla, ma del tentativo di perpetrare ed estendere il proprio potere da parte di chi ha cercato di escludere i propri ricercatori persino dagli organi istituzionali in cui hanno diritto ad essere rappresentati (c’è voluto un ricorso accolto dal TAR).Nel merito: come ricercatore “marino” del CNR ritengo che essendo stata appena conclusa una riorganizzazione degli istituti marini del CNR, che ha richiesto notevoli sforzi e reso il nostro lavoro estremamente difficile durante tutto il periodo di transizione, sarebbe quantomeno inopportuno procedere a una nuova riorganizzazione così radicale oggi. E’ folle pensare che si possa lavorare in un perenne stato di transizione, sarebbe il colpo di grazia per tutti noi che peraltro abbiamo già dovuto ingiustamente subire le conseguenze della scellerata gestione che ha portato qualche dirigente ed ex-DG del CNR alle dimissioni (con accuse che includono l’associazione a delinquere).
C’è poi la questione della “monodisciplinarietà” che forse può applicarsi a discipline come la fisica nucleare o l’astrofisica, ma certamente non è applicabile alle scienze del mare e polari in un momento in cui a livello internazionale si sottolinea sempre di più l’importanza di studiare il Sistema Terra nel suo insieme, per il ruolo fondamentale che hanno le interazioni e gli accoppiamenti tra i diversi domini: terra-oceano-atmosfera-criosfera-biosfera. In questo contesto, tenderei a considerare un vantaggio ulteriore far parte di un ente multidisciplinare che ha elevate competenze anche sullo sviluppo di nuove tecnologie e metodologie innovative (a titolo di esempio si vedano le strategie dell’Agenzia Spaziale Europea rispetto allo sviluppo del Digital Twin of the Earth).
Insomma, mettiamo sul tavolo tutte le opzioni possibili e valutiamone gli elementi di forza, i costi, e i benefici. Potremmo ad esempio scoprire che si potrebbe risparmiare qualche poltrona da presidente, da direttore generale, da consigliere di amministrazione, facendo piuttosto entrare nel CNR la Stazione Zoologica di Napoli, mantenendone l’individualità come istituto, ma favorendo le collaborazioni e il coordinamento scientifico attraverso i dipartimenti del CNR.
Questo per spiegare che io non lo so quale sia la soluzione migliore, ma ho la certezza che quella che hanno tentato di imporre non rappresenta proprio una soluzione.
Continuo peraltro a pensare che sarebbe più importante per tutti discutere di come stimolare la collaborazione tra i ricercatori (al di la delle scatole che li contengono) cambiando le modalità di gestione dei finanziamenti. Chi vede gli istituti come scatole chiuse, lo fa pensando che sia attraverso quelle scatole che debbano fluire i finanziamenti, dall’alto verso il basso, con un controllo totalmente top-down. Cambiamo la prospettiva, e facciamo piuttosto in modo che vengano finanziate le idee attorno a cui si costruisce la collaborazione tra i ricercatori, a prescindere dalla scatola in cui si ritrovano, esclusivamente attraverso bandi aperti e valutazioni comparative serie. Per il finanziamento e la gestione di eventuali grandi infrastrutture (una nave oceanografica?) certamente non mancheranno soluzioni alternative.
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20 Dicembre 2020 alle 10:39 #8932sergio.ragonese@cnr.itPartecipante
“Un ricercatore sano in una ricerca sana?”
Oppure
“Prima organizzare il contesto della ricerca e poi pensare al ruolo del ricercatore?”
Quello è il problema!Sergio Ragonese
IRBIM CNR Sede di Mazara del ValloL’adattamento dei tre celeberrimi motti che danno il titolo a questo articolo (una sorta di lettera aperta alla comunità scientifica marina e non solo) scaturisce, quasi spontaneo, dalla recente diatriba che è stata accesa dalla meteorica, quanto fugace, apparizione dell’emendamento che voleva creare un unico Istituto Nazionale di Ricerche Marine e Polari.
Più nello specifico, gli anonimi compilatori pensavano di unificare la quasi totalità delle entità di ricerca pubbliche che studiano i caldi e salati mari che bagnano l’Italia e, nel rispetto dei principi yin – yang, anche i gelidi oceani dei due poli del pianeta terra.
Limitandoci, per esigenze di sintesi, al comparto marino del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), e volendo ripescare una metafora sempre polare, l’emendamento di cui prima e la sua vicissitudine ricorda l’iceberg avvistato tardivamente dalle vedette del Titanic.
Preso atto delle diverse e spesso contrastanti reazioni all’avvistamento dell’iceberg, pardon, dell’emendamento (vedi per esempio i commenti nel sito https://ilnostrocnr.it/forums/), la vera domanda che i ricercatori marini si dovrebbero porre è “Che fare con l’iceberg sempre più vicino?”
Tranne qualche collega nichilista o amante del cupio dissolvi (del tipo muoia Sansone con tutti i filistei), una prima risposta istintiva potrebbe essere “Cerchiamo di evitare la montagna di ghiaccio!”
Eppure, a pensarci meglio, la domanda più razionale e logica, sulla base dell’esperienza della ricerca marina CNR, dovrebbe essere un’altra: “Come evitare lo schianto e l’affondamento della nave?”
È questa seconda domanda che apre il vaso di Pandora delle diverse e contrastanti opinioni, ma è proprio la tragica esperienza del Titanic che dovrebbe fornirci delle ispirazioni. La prima è che, come il Titanic, non possiamo fermare le macchine, la seconda è che abbiamo solo due scelte percorribili: 1) cercare di deviare e schivare o 2) rallentare e affrontare l’urto. Come ci ricordiamo bene, fu la prima opzione, scelta dal comandante Edward John Smith, che causò l’affondamento del Titanic; avesse seguito la seconda, probabilmente il Titanic si sarebbe salvato.
In sintesi, il primo messaggio che questa nota vorrebbe trasmettere alla comunità scientifica marina CNR (e non solo) consiste nell’avere la consapevolezza che forse è meglio rischiare l’urto di una profonda riorganizzazione del comparto ricerca marina piuttosto che cercare di mettere delle pezze che poi si rivelano peggiori dei buchi.
Non a caso, chi scrive ha vissuto in prima persona, nel giro di 20 anni, due profonde e laceranti riorganizzazioni degli Istituti del mare del CNR ed il fatto che adesso qualcuno abbia tentato una terza e radicale ristrutturazione fa presupporre che le precedenti non abbiano sortito l’effetto sperato.
Quindi, rallentiamo e prepariamoci all’urto, ma mentre ci avviciniamo all’iceberg, invece di disperarci e reagire in modo irrazionale, possiamo iniziare a riflettere su quale sia il migliore degli atteggiamenti mentali da assumere per il dopo iceberg, magari individuando rapidamente dei modelli di riferimento almeno preliminari o orientativi.
Il primo dilemma è come potremmo immaginare, nel Nuovo Scientifico e “Alto Mare Aperto”, i ricercatori e il contesto dove gli stessi dovranno operare. Che approccio converrà seguire? Purtroppo, non abbiamo delle indicazioni di ispirazione divina scolpite sulla pietra che ci dicano quale sia la strada giusta, ma, con un po’ di logica, i molteplici sentieri si possono ricondurre a 3 possibilità che caratterizzeremo anche con dei motti classici:
1) primum vivere, deinde philosophare, cioè procediamo a passi successivi o a corrente alternata prima definendo la sfera operativa (l’organizzazione strutturale) e quindi il modello di ricercatore, magari reiterando il processo sino all’equilibrio considerato ottimale (ammesso che esista);
2) due parallele prima o poi si incontreranno (all’infinito secondo Euclide), ovvero confezione sfera operativa e definizione ricercatore procedono in parallelo (come le Vite di Plutarco), sperando che il sistema raggiuga, sua sponte, prima o poi, un equilibrio;
3) mens sana in corpore sano, ovvero definizione ricercatore e confezione sfera operativa vanno visti come le due facce della stessa medaglia (come quella di Leon Battista Alberti) dove è impossibile pensare di modellarne una senza tener conto anche dell’altra.
Mentre riflettiamo su quale delle 3 precedenti opzioni possa meglio adattarsi al nostro sentire, nulla ci impedisce di pensare anche ai possibili modelli di ricercatore e ricerca. Ovviamente, se da un lato è impensabile in questa sede ripercorrere la storia millenaria di queste problematiche, dall’altro possiamo lasciare libera la nostra memoria di suggerirci qualcosa, di bagnarci con un zampillo che scaturisca da una piccola fessura della roccia che però nasconde un’immensa sorgente d’acqua.
Ebbene, se dovessi scegliere un archetipo di ricercatori da cui iniziare un nuovo mondo mare non avrei dubbi sui nomi e suggerirei (a parte Aristarco di Samo, che vedremo in seguito, e sulla falsa riga delle moderne agenzie di rating) una tripla AAA, ovvero Anassimandro, Anassimene e Anassagora.
Non avendo paura né dell’establishment “scientifico” dell’epoca né dei possibili ricatti da parte di politici (oggi tradotti nel servile adeguamento al politically correct) o lobby economiche, i nostri eroi osarono affermare cose audaci, rivoluzionarie ed inaudite per la loro epoca. Fra queste, esisteva un caos primordiale (nessuna creazione ex nihilo), la terra era sospesa nel vuoto, la luna era di natura “terrestre” (anticipando Galileo), le eclissi erano un fenomeno naturale, il sole una massa incandescente, la vita sulla terra originata da “semi di vita” (anticipando la panspermia di Arrhenius), la vita originata nel mare, l’essere umano derivato da forme più antiche (anticipando Darwin), dove quest’ultima congettura fu basata sull’osservazione dei lunghi tempi richiesti dai bimbi per divenire indipendenti. e molto altro ancora.
Altri due aspetti importanti dei nostri eroi sono che non esitarono a mettere in discussione lo status quo (anche in contrasto con i loro maestri) e ad esporsi (anche affrontando le accuse di empietà) cercando di integrare le loro congetture pur disponendo solo degli occhi per piangere come strumenti di misura.
Certo, adesso (quasi) tutti noi siamo bravi a concordare che la terra non è un cilindro, la Luna non è un disco (ma un satellite), il sole non è una pietra (ma un globo di plasma), che il sangue non si formi da una minuscola goccia di sé stesso e via discorrendo.
La tripla AAA, dovrebbe essere la guida per la selezione dei ricercatori del mare del futuro: avere una sfrenata insaziabile passione per la curiosità del mondo (come suggerito dall’Occhio alato nella medaglia dell’Alberti che ovunque vola e tutto in potenza vede), un coraggio leonino nell’andare contro i dogmi scientifici e i relativi establishment, un’assoluta indipendenza da qualunque influenza esterna alla scienza, non scappare dal confronto delle idee e una diamantina correttezza morale nello svolgimento delle loro ricerche.
Ancora più in dettaglio, la passione per la curiosità dovrebbe costituire il test principale per selezionare i ricercatori del futuro per la semplice ragione che i giudizi dell’establishment (leggi voti al liceo o all’università o le pubblicazioni dei baroni o dei “pari”) tendono ad ostacolare o sopprimere qualsiasi idea veramente originale.
Qualche esempio? Tralasciando il celeberrimo caso di Galileo Galilei (Eppur si muove!), Aristarco di Samo non avrebbe avuto nessun finanziamento né ottenuto un posto di ricercatore dato che era considerato folle ed empio avendo, per primo, osato contrastare gli Aristotelici con la sua idea che il sole e non la terra fosse il centro dell’Universo di allora. I primi atomisti, che avevano intuito la natura corpuscolare della materia, furono additati come totalmente pazzi e derisi per secoli. La teoria della deriva dei continenti, elaborata fra il 1912 al 1928 da Alfred L. Wegener (anche se su spunti pregressi di altri colleghi) fu aspramente criticata da molti geologi e geofisici che sghignazzavano all’idea che i continenti si comportassero come iceberg; solo 30 anni dopo la morte, la scoperta delle fenditure oceaniche, sconosciute come tutto il fondo oceanico, diedero ragione all’intuizione di Wegener.
Per il curriculum didattico, diversi geni in giovane età furono considerati studenti mediocri e con un Outlook negativo. Il caso più famoso è Albert Einstein che per molto tempo non riuscì ad ottenere una cattedra universitaria e poi ricevette il Nobel per una ricerca diversa dalla sua rivoluzionaria teoria (oggi legge) della relatività che all’epoca quasi nessuno aveva capito e moltissimi avevano rigettato come assurda e senza senso.
La tripla AAA è però una delle facce della medaglia e per vedere l’altra, cioè la sfera della struttura, sempre utilizzando un emblema classico, occorre indirizzare il pensiero verso una qualche entità scientifica antica.
Di solito, i più richiamano la scuola Pitagorica o l’Accademia, ma per chi scrive l’esempio più calzante è il Museion (con l’annessa Biblioteca) di Alessandria d’Egitto. In quel luogo, per quanto risulta, gli studiosi conducevano liberamente le loro ricerche, stipendiati dallo stato, ma senza vincoli o piani programmatici, scrivendo le loro opere senza censure e senza dover competere fra di loro o badare al peer referee. Come è noto, con questo termine si indica il moderno meccanismo di controllo della letteratura scientifica, tanto declamato, ma foriero di molti degli attuali guasti della ricerca; in questa sede, basti citare le frodi, le falsificazioni (il cd problema dell’”onesto Jim”) e la burla di Alan Sokal che si fece pubblicare un articolo verosimile, ma farlocchio, da una rivista impattata e che si serviva dei referee.
Accettato il modello Museion, rimane da decidere quale scala adottare a livello nazionale: quella del “piccolo e bello” (da alcuni detta “del mio orticello”) o quella dell’unità a livello tematico. Un esempio delle due scuole di pensiero li dà la storia recente del CNR che nella prima riforma recente (quella di Pistella) ridusse i suoi Istituti da 300 a ca 100, quindi da molto “piccolo è bello” ad una maggiore unità.
Rimanendo sul mare, il problema è che la prima riforma non ebbe il coraggio di andare a fondo della questione. Furono creati due Istituti pienamente coinvolti nelle scienze del mare (ISMAR e IAMC), ma separati solo da un punto di vista geografico dato che le due entità facevano praticamente le stesse cose. Non a caso, ancora con l’atto istitutivo IAMC fresco di stampa, il CNR sentì l’esigenza di cambiare la denominazione della sua denominazione da Istituto per lo studio dell’Ambiente Marino e Costiero a Istituto per lo studio dell’Ambiente Marino Costiero (riuscite a notare dove sta la minuscola, quanto significativa, differenza?).
La cosa evidentemente non ha portato bene al CNR mare dato che non più di 3 anni fa si riorganizzava nuovamente il settore marino sempre partendo dal postulato / assioma / dogma che la strada di un’unica entità marina non fosse percorribile.
Niente di male, volendo sempre applicare il “piccolo è bello” in un contesto più logico e scientifico (per intenderci, lontano dalla separazione nord / sud fatta con ISMAR e IAMC) sarebbe basato creare due Istituti che studiassero elettivamente uno la componente abiotica (talassografia /oceanologia / oceanografia e corrispondenti risorse fisiche, come generare elettricità con le onde del mare o le correnti) e l’altro la componente biotica (biologia / ecologia marina e risorse rinnovabili, come i pesci da mangiare o i microbi da utilizzare per abbattere l’inquinamento degli idrocarburi).
Gli ambienti estremi (come i poli) avrebbero costituito dei dipartimenti / sezioni dei due Istituti perché contemplano tematiche sia abiotiche (le carote di ghiaccio per studiare le variazioni del clima) sia biotiche (per esempio, i gamberetti del krill contesi dalle balene e dai pescatori). Questa impostazione, pur non escludendo la necessità di collaborare, avrebbe permesso una più chiara separazione di ruoli, non sottacendo il ripristino di una copertura per ogni Istituto su tutto il territorio nazionale.
Nonostante l’ipotesi dualistica sembrava avere qualche possibilità di riuscita, anche questa volta, alla fine, si è optato per un sentiero pieno di cocci aguzzi di bottiglia. In succo, si è mantenuto l’ISMAR (con qualche variazione territoriale) e si sono creati addirittura altri 3 Istituti: uno relativo all’impatto antropico (IAS), uno sulle risorse e le biotecnologie (IRBIM) e uno “Polare”. Per amore di verità, il Polare era stato classificato come “non marino” ed effettivamente, a rigore di logica, i ghiacci polari dovrebbero essere fatti di acqua non salata.
Tralasciano il Polare, di fatto, ISMAR, IAS e IRBIM appaiono come le 3 grazie o come le 3 ipostasi della trinità dei cattolici, sono cioè indistinguibili nella sostanza, facendo tutti la stessa cosa: cioè si occupano delle scienze del mare.
Non a caso, le 3 entità stanno costruendo uno stesso sito web, hanno adottato dei loghi impercettibilmente diversi l’uno dall’altro e (per farla breve) fanno parte di uno stesso network scientifico di ricerca sul mare (forse propedeutico per i piani nazionali di raccolta dati alieutici) che, guarda caso, il lettore potrà trovare descritto nel sito della Stazione Zoologica di Napoli (SZN). Sempre per amore di verità, la SZN avrebbe fatto parte, come sede principale, del possibile esempio “unitario” suggerito proprio dall’iceberg / emendamento: creare un Istituto Nazionale Italiano per le Scienze del Mare (possibile acrostico INISM, dato che il Polare potrebbe essere un suo dipartimento vista anche l’ingombrante presenza dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, OGS, che da decenni si occupa del Polo sud).
L’INISM sarebbe un’unica realtà tematica, ben organizzata e coordinata, su tutto il territorio nazionale (e basi fluttuanti e sulla banchisa nei Poli Nord e Sud, rispettivamente), con fondi adeguati, indipendenti da fonti esterne, ricca di personale che agisce in sincronia / sinergia, personale che partecipa (cosa importantissima) con i suoi rappresentanti in modo significativo ai vari livelli decisionali (la cd governance), un Istituto brillante per la trasparenza degli atti, e dotato delle necessarie infrastrutture e strumentazioni, non ultime le navi (almeno 3 unità gemelle), per svolgere autonomamente la ricerca nei nostri 3 bacini principali (Tirreno, Ionio e Adriatico) che al momento nessuno dei 4 istituti possiede.
Qualcuno potrebbe pensare che l’ipotesi unitaria sia una novità recente alla quale non siamo ancora preparati, ma è un pensiero fallace dato che, per decenni, si è discusso di questa opzione e sembra che Giovanni Bombace (ai tempi dell’IRPEM di Ancona) fosse quasi riuscito nell’intento.
I ricercatori INISM avrebbero la possibilità di aderire a gruppi di lavoro finalizzati a tematiche particolari e in competizione con l’esterno (qualcosa di simile alle “commesse” della riforma Pistella) oppure preferire un più baso profilo di complessità (sfuggire alla cd sindrome o effetto della Regina Rossa), attivando quelle che, sempre nella riforma Pistella, erano state definite “curiosity driven” e che la maggior parte degli attuali sistemi di mega finanziamento considerano come il due di picche quando la briscola è a bastoni.
Ovviamente, l’INISM dovrebbe fare il possibile per allenterebbe gli assurdi e spesso risibili vincoli burocratici sui luoghi e sulle fasce orarie in cui i suoi ricercatori svolgeranno la loro ricerca.
Per i luoghi, basterà ricordare due aneddoti (più o meno veritieri, ma sempre simbolici) fra i tanti.
Il primo ci descrive Archimede che corre nudo e bagnato per le strade di Siracusa, esultando e gridando “Eureka! Eureka!”; era sgocciolante perché aveva risolto il problema della corona d’oro, intuendo la sua legge sul galleggiamento, mentre faceva il bagno nella vasca di casa sua (anche se non sappiamo se avesse anche le paperelle di legno).
Il secondo ci racconta come a Lazlo Birò venne l’idea della penna a sfera; si dice che stava andando a zonzo per il parco, in un giorno di pioggerella, quando vide dei ragazzini che giocavano a calcio; in un passaggio, il pallone, passando su una pozzanghera, lasciò una sottile scia di fango sul terreno da cui la penna biro. Non è dato sapere se Archimede e Birò avessero avuto la stessa intuizione dovendo rimanere in laboratorio per 7 ore e 12 minuti.
Per le fasce orarie, visto che si tende a considerare il giorno come orario lavorativo, basterà ricordare gli aneddoti relativi alle ispirazioni che Morfeo spesso regala ai ricercatori che dormono. Due fra i casi più famosi, il sogno che ispirò a Kekulè la struttura ad anello del Benzene (il “serpente che si morde la coda”) e i tre sogni mattutini che permisero a Louis Agassiz la definizione dei resti di un misterioso pesce fossile. Se i burocrati possano considerare queste ore notturne nelle 7 ore e 12 minuti rimane oggetto di speculazione.
Insomma, l’ipotesi mens sana in corpore sano potrebbe rappresentare una vera rivoluzione, come la tripla AAA o copernicana o einsteniana, del comparto mare, rivoluzione che è molto improbabile possa funzionare peggio dei sistemi precedenti allo INISM compreso quello attualmente in vigore.
Invece, qual è l’impressione che si ha di fronte a molte delle reazioni della comunità scientifica marina all’apparizione all’orizzonte prossimo dell’iceberg / emendamento?
Personalmente, di profondo scoramento. Di fatto, sembra che ad ogni crisi del sistema i benaltristi invece di proporre nuove soluzioni alla radice dei problemi cronici non sappiano fare altro che ripetere i mantra del tipo “i necessari aumenti di finanziamento” (cioè il famoso FOE senza però chiedere una verifica di come siano stati spesi i soldi già avuti, a parte gli stipendi) oppure “l’urgenza di riconsiderare, per il CNR, i meccanismi amministrativi e contabili” e “rinnovata partecipazione”, evidentemente entrambi temi ritenuti inadeguati alla ricerca ed apparentemente non superabili dato che permangono (o addirittura sono peggiorati) nonostante le due riforme, complessiva (CNR) e del mare (con i 3 o 4 istituti), tentate negli ultimi 20 anni.
In sintesi, si cerca nuovamente di evitare l’iceberg mantenendo più o meno lo status quo strutturale, cioè un CNR divenuto ormai un brontosauro iper burocratizzato dove poche persone ai vertici decidono il destino di migliaia fra ricercatori, tecnologi e tecnici, e dove mucchi di denaro vengono destinati ad attività collaterali spesso di dubbio interesse per la ricerca del CNR, mentre il personale si affatica.
Insomma, nessun ripensamento sui principi e meccanismi di base per definire i ricercatori e la sfera nella quale gli stessi possano operare al meglio per il progresso delle conoscenze e beneficio della società italiana.
Anche questa sconsolata conclusione ricorda un emblema classico: i ricercatori CNR che si affannano a reperire altri fondi ed a seguire la corrente dei finanziamenti ricordano molto la figura del cordaio Ocno che, nell’Ade si affatica incessantemente a fabbricare una corda che però, dietro di sé, e a sua insaputa, viene mangiata da un somaro.
Tradotto in termini più potabili, se la comunità scientifica marina italiana riuscirà, per l’ennesima volta, a rinviare lo schianto con l’iceberg, l’Istituto Nazionale del Mare rimarrà per molto tempo ancora in quel territorio incognito dove una volta si leggeva la scritta (per rimaner nel mare) “Hic sirenae abundant”.-
21 Dicembre 2020 alle 23:32 #8933BBNPartecipante
Non vedo su quale base scientifica si possa affermare che un’unica realtà tematica così costruita potrebbe mai essere “ben organizzata e coordinata,” a meno di chiamare impropriamente “coordinamento” l’imposizione dall’alto e l’arbitrio, concetto ben lontano da quello di Museion in cui gli studiosi possano liberamente condurre le loro ricerche, “stipendiati dallo stato, ma senza vincoli o piani programmatici, scrivendo le loro opere senza censure e senza dover competere fra di loro o badare al peer referee”. Niente di più lontano dal sistema attuale, dove si pretende di comandare senza che i sottoposti possano neppure esprimersi sul loro destino (a tal proposito si veda la recente sentenza del TAR sulla rappresentanza dei R&T della SZN: https://anpri.fgu-ricerca.it/comunicato-del-21-dicembre-2020-il-tar-ci-da-nuovamente-ragione-anche-il-nuovo-statuto-e-il-nuovo-rof-della-szn-non-assicurano-leffettiva-rappresentanza-dei-rt-nel-cda/).
Molte imprecisioni anche nella narrazione della storia degli istituti marini del CNR, non che funzionassero come uno avrebbe potuto auspicare, ma non sono certo stati riorganizzati per il fallimento di una strategia scientifica o di coordinamento (tant’e’ che di nuove strategie e schemi possibili ce ne sono stati raccontati almeno 5 prima di arrivare a quello attuale, tutti ogni volta presentati come una grande razionalizzazione, salvo forse proprio l’ultimo, che in uno sprazzo di onestà intellettuale ci veniva descritto piuttosto come il frutto di indicazioni ed esigenze “della politica”). Ci si dimentica forse che uno degli istituti marini (IAMC) è stato sotto i riflettori perchè utilizzato per una certa “gestione” del denaro pubblico da parte di un DG senza scrupoli (e, a quanto mi risulta, in attesa di processo per associazione a delinquere), non certo perchè fossero tutti coinvolti i ricercatori, che anzi ne hanno in larghissima maggioranza patito ingiustamente le conseguenze, vedendosi scippare i fondi dei progetti di propria responsabilità e vivendo per anni difficoltà inaccettabili anche solo per acquistare un computer, uno strumento o andare in missione. Al CNR faceva evidentemente comodo che IAMC sparisse. Ma ora che faticosamente ritroviamo la normalità di una gestione ordinaria, e possiamo finalmente ricominciare a pensare a un futuro di collaborazioni e progetti (nel mio caso rigorosamente internazionali, chè solo da lì posso innaffiare “il mio orticello”, espressione che trovo abbia molta più dignità del lavorare la terra per un qualunque latifondista, anche perchè nulla impedisce che possa scambiare le semenze e il concime con l’orto del mio vicino), proprio ora, dicevo, dovremmo ricominciare da capo in nome di che cosa?
Il coordinamento, quello vero, si può fare benissimo senza dover creare nuovi enti, riconoscendo nelle idee e nella competenza dei ricercatori il fine e lo strumento per l’avanzamento della conoscenza. Ma questo significa che devono cambiare le modalità di gestione dei finanziamenti nazionali (basta cooptazioni!) e specialmente deve essere garantita la trasparenza in ogni atto, ogni nomina, e la massima apertura alla discussione e al confronto (non certo riducendo i CdI e i CS a meri organi di consultazione formale, magari intimando ai rappresentanti eletti di non diffondere le informazioni a chi li ha votati).
Quanto poi al considerare gli attuali istituti come parte di uno stesso (unico?!) network scientifico di ricerca sul mare “propedeutico per i piani nazionali di raccolta dati alieutici”, ecco, qui sì, forse si pretende di considerare solo le proprie coltivazioni come centrali nell’agricoltura della regione, quando le attività e gli interessi sono molto più ampi e multidisciplinari e non si esauriscono affatto in quanto riportato sul sito della SZN. Multidisciplinarietà che rende peraltro la permanenza delle attività marine nel CNR un fattore estremamente positivo e da salvaguardare, per l’ampio spettro di competenze e di interazioni all’interno dei vari dipartimenti. Ridurre il tutto a un’unica anima, questo sì, trovo sia offensivo e superificiale da parte di chi dimostra tanta capacità dialettica e cultura.
Il “coordinamento” sarà possibile solo quando (ma specialmente se), ci sarà il rispetto verso gli altri, la disposizione all’ascolto e alla discussione. Solo così si potranno individuare degli obiettivi condivisi, attraverso dei percorsi condivisi.
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22 Dicembre 2020 alle 10:10 #8936BBNPartecipante
Tante, troppe imprecisioni in questo quadro descritto con tanta erudita eloquenza. Proviamo a mettere ordine.
Gli istituti marini del CNR non sono stati riorganizzati per il fallimento di una strategia scientifica e di coordinamento (non che brillassero per nessuno dei due aspetti), ma perché uno dei due, IAMC, è stato sotto i riflettori come strumento utilizzato da un ex-DG (per quanto mi risulta attualmente in attesa di processo, con accusa di associazione a delinquere), e dalla sua “cricca”, per una “gestione” scellerata del denaro pubblico. Il fatto stesso che prima della configurazione attuale ce ne fossero state presentate almeno altre 4 (tutte ogni volta descritte come una grande “razionalizzazione”, salvo poi riconoscere che proprio l’ultima originava piuttosto da una volontà “politica”), dimostra che il CNR voleva solo rimescolare le carte.
In mezzo però c’è la vita lavorativa della stragrande maggioranza dei ricercatori marini di IAMC che ne hanno subito ingiustamente le conseguenze per anni: fondi di ricerca bloccati o sottratti, difficoltà immani anche solo per comprare un computer, uno strumento o andare in missione. E ora che finalmente siamo ritornati a una gestione ordinaria e possiamo ricominciare a pianificare la nostra attività e le nostre collaborazioni dovremmo ricominciare da zero in nome di cosa?
Affermare che i 3 istituti marini “fanno parte di uno stesso network scientifico di ricerca sul mare (forse propedeutico per i piani nazionali di raccolta dati alieutici) che, guarda caso, il lettore potrà trovare descritto nel sito della Stazione Zoologica di Napoli (SZN)” rivela una visione parziale e superficiale delle attività marine al CNR. Io con i ricercatori SZN collaboro da almeno 20 anni ma il mio lavoro certo non è classificabile nella missione della SZN (né nella missione primaria del fantomatico istituto marino e polare, per come descritto nell’emendamento), e certamente le attività marine dentro e fuori dal CNR vanno molto al di là della raccolta di dati alieutici. Non esiste un network unico ma molti network e molte sovrapposizioni, ma anche molte specificità. Dovremmo però considerare questa multidisciplinarietà come una enorme ricchezza su cui puntare per aumentare le interazioni e le collaborazioni all’interno e all’esterno dei dipartimenti del CNR, magari adottando modelli di finanziamento della ricerca che favoriscano la collaborazione spontanea (basta cooptazione su grossi progetti gestiti in modalità top-down!).
Non si capisce poi come una unica realtà “tematica” potrebbe mai essere “ben organizzata e coordinata”, a meno di chiamare “coordinamento” l’imposizione dall’alto, la gestione autarchica ed autoreferenziale, visto che chi se ne è fatto promotore (seppure privo del coraggio di metterci pubblicamente la firma) ha dimostrato il più totale disprezzo e disinteresse verso i suoi stessi ricercatori (si veda a tal proposito la sentenza del TAR sulla rappresentanza dei R&T alla SZN: https://anpri.fgu-ricerca.it/comunicato-del-21-dicembre-2020-il-tar-ci-da-nuovamente-ragione-anche-il-nuovo-statuto-e-il-nuovo-rof-della-szn-non-assicurano-leffettiva-rappresentanza-dei-rt-nel-cda/). Altro che studiosi del Museion che possano condurre “liberamente le loro ricerche, stipendiati dallo stato, ma senza vincoli o piani programmatici, scrivendo le loro opere senza censure e senza dover competere fra di loro o badare al peer referee”, qui il rischio è l’annullamento del pensiero libero e autonomo, e la gestione centralizzata delle risorse, senza alcuna condivisione e senza alcuna trasparenza.
In questo contesto difendere il proprio “orticello” (nel mio caso annaffiato, chi sa come mai, esclusivamente con fondi internazionali) è certamente più dignitoso del lavorare la terra per qualche grande latifondista, anche perché nulla impedisce di scambiare le semenze e il concime con l’orticello del proprio vicino, a patto di riconoscere che il proprio orticello non esaurisce l’agricoltura di tutta la regione.
Quindi ben venga un maggiore e reale coordinamento che parta dalle idee e non dai confini chiusi di scatole e scatolette preconfezionate, ben venga una discussione aperta, ma non una razionalizzazione fittizia che rischia solo di rendere la nostra vita lavorativa meno efficiente e meno autonoma.
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